Vita breve e infelice di uno scrittore di fantascienza – Parte II
Avevamo già parlato tempo fa della – apparentemente – triste fine che sta facendo la sci-fi italiana, almeno a giudicare dalla scomparsa della stragrande maggioranza di concorsi letterari dedicati al genere. Avevamo chiuso con una serie di punti interrogativi ai quali sarà arduo dare risposta.
Il genere non è morto, ma resta sempre più confinato nella nicchia. Da un certo punto di vista, la nicchia è “salutare” rispetto al mainstream perché, se il pubblico generalista è mobile e va dove lo porta l’interesse collettivo del momento, il fandom è assai più preparato, fedele e smaliziato. Trattandosi comunque di un genere dall’importanza e dalla forza non indifferenti, che ha assunto un ruolo fondamentale nella letteratura del ‘900, è vero anche che trascurare le implicazioni di questo posizionamento “periferico” sarebbe un delitto.
La fantascienza italiana ha sempre sofferto, nella sua storia, dell’influsso di quella statunitense, soprattutto per quanto concerneva i gusti del pubblico quando il genere fu sdoganato. Mentre spopolava – quasi sempre a buon merito, eh – la celebre collana Urania, molti scrittori italiani dovettero adottare uno pseudonimo anglosassone per poter accedere al mercato: una specie di Ellis Island della letteratura, solo che stavolta si trovava a casa nostra. Il caso più triste fu quello di Roberta Rambelli, costretta non solo a cambiare il cognome in “Rambell”, ma anche il nome nel maschile “Robert”.
(La leggendaria copertina bianca e rossa della collana Urania)
Ripercorre la storia della sci-fi italiana Domenico Gallo, in un articolo (“Fantascienza italiana: la terra dei cactus”) apparso sulla rivista Intercom, seguito nella stessa pagina da un secondo articolo di Carlo Pagetti (che gli appassionati di Philip K. Dick ricorderanno autore delle prefazioni nella collana di Fanucci, alcune delle quali discutibili, a partire dal fatto che rivelano il finale senza dare al lettore neanche il tempo di arrivare all’incipit…)
Dell’articolo di Gallo è interessante il modo in cui l’accento viene posto sulle radici della diffidenza italiana per la sci-fi, a sua volta conseguenza della diffidenza verso la tecnologia, dopo che questa era giunta a stravolgere i valori della vita rurale. Aggiungerei, inoltre, dopo che la tecnologia aveva mostrato il suo “volto atroce” nel corso del secondo conflitto mondiale (passaggio, questo, che invece manca nell’immaginario collettivo americano). L’Europa del secondo dopoguerra è stata comprensibilimente meno entusiasta verso le meraviglie del progresso, sia per motivi culturali (un maggiore attaccamento a tradizioni lontane nel tempo che i giovani Stati Uniti ancora non avevano maturato), sia per motivi psicologici, avendo vissuto sulla propria pelle il trauma delle “macchine della morte”. C’è da dire che altrove, come in Giappone, questo trauma – ben più atroce, nel loro caso – è stato al contrario interiorizzato dalla sci-fi, non solo letteraria, al punto da diventarne il marchio distintivo.
Andando a ritroso nel tempo, un’analisi dei gusti letterari del pubblico italiano smaschera una tendenza ad amare l’esotico, l’altro, lo sconosciuto e misterioso, più che la proiezione estremizzata del proprio mondo e della propria società (compito che invece si è bene o male sempre assunta la fantascienza). Abbiamo avuto anche noi i nostri “romanzi scientifici” e “protofantascientifici”, in particolare grazie alla penna di Salgari, forse il primo scrittore italiano ad aver “viaggiato nel tempo” per ritrarre una futura società italiana nella quale, a meravigliose macchine volanti, si accompagnavano vita frenetica e problemi ambientali.
Vi lascio con un gustosissimo video sulla sua celebre battuta, “E’ morto, Jim!”, ancora oggi un tormentone in tutto il mondo (insieme a “Sono un dottore, non un… [mestieri più bizzarri]). Posto il video in inglese, sia perché rende meglio la bravura dell’attore, sia perché in Italia fu doppiato da tre diverse voci e si sentirebbe lo “scarto”).