Scritture italiane… e non solo: Anilda Ibrahimi e le autrici albanesi in italiano

La letteratura italiana contemporanea vanta nomi di autrici e autori che sono italiani… e non solo.

Nel mondo globalizzato di oggi, aumentano gli spostamenti, i trasferimenti, le migrazioni. Di conseguenza aumenta il numero di persone che parla una seconda lingua.

In Italia, paese accogliente per definizione (nonostante tiri una brutta aria, sono convinta che rispetto al resto dell’Europa e del mondo siamo tra i più aperti), aumenta anche il numero di autrici e autori per i quali l’italiano è una seconda lingua.

Persone di ogni provenienza che sono passate o si sono stabilite qui, e hanno imparato a usare l’italiano non solo per vivere e per comunicare, ma anche per scrivere, dare messaggi, raccontare storie, intraprendere un percorso personale di scoperta della lingua che arricchisce tutte e tutti noi.

Mi piace molto leggere autrici e autori per i quali l’italiano è una seconda lingua, perché riescono a viverla in modo diverso, inedito, quasi come fosse un ibrido: l’insieme della lingua vecchia e di quella nuova, il pensiero strutturato come la propria lingua madre e l’abito di quella di arrivo.

Tra tanti autrici e autori contemporanei “italiano seconda lingua”, ho conosciuto da poco Anilda Ibrahimi. Ho deciso di parlarne qui, per diversi motivi.

Il primo è che Ibrahimi è innegabilmente brava a scrivere e le sue storie sono avvincenti, profondamente umane e vive.  Dopo la conclusione di un suo libro abbiamo l’impressione di essere diverse, il grado di coinvolgimento richiesto è una prova di fiducia che ci fa ripensare all’esperienza fatta.

Inoltre, (secondo motivo), le sue storie riguardano anche noi. Ibrahimi è albanese e racconta vicende grandi e piccole, belle e (molto) brutte, accadute a pochi passi da noi, che però nessuno qui in Italia conosce ancora bene.

Noi italiane e italiani non abbiamo davvero la consapevolezza delle guerre accadute a poca distanza da noi, che abbiamo visto accadere in modo distratto. Non abbiamo prestato orecchio alle sofferenze, alle crisi, dei riscatti, agli incredibili torti vissuti dai nostri vicini albanesi… Vicini che non ti scegli, vicini che ti stanno scomodi, come scrive un’altra autrice albanese: Elvira Dones, nel suo “Sole bruciato”, cronaca infernale dell’olocausto vissuto da migliaia di ragazze albanesi, ridotte alla schavitù sessuale sulle nostre strade, per i turpi desideri degli uomini italiani).

Il terzo motivo per cui segnalo Ibrahimi, tornando a lei, è perché attraverso le sue storie possiamo capire più da vicino cosa è successo: non tanto dal punto di vista storico e politico quanto dal vissuto personale di donne e uomini che oggi sono anche qui, che incontriamo ogni giorno e che magari hanno vissuto una guerra civile, o una deportazione, o una faida “etnica”. Sapere, leggere, e poi magari chiedere e informarsi sono valori aggiunti di un certo tipo di romanzi, come quelli di Ibrahimi, che chiamano in causa anche noi e le nostre vite quotidiane.

Un aspetto che mi preme sottolineare è anche la grande diversità con la quale veniamo a contatto, leggendo storie come quelle di Ibrahimi. Siamo molto vicini all’Albania e ai Balcani, ma il popolo italiano e qualli balcanici sono profondamente diversi tra loro (posso ben dire di saperlo, dato che un uomo albanese è il mio compagno di vita dal 2002). Apparteniamo a mondi culturali lontani, seppur vicini di casa. Ed è un percorso affascinante, quello che ci porta a camminare per le stradine di un villaggio albanese, o in un quartiere kosovaro, ad ascoltare le voci, ad assistere alla quotidianità… Mentalità, abiti culturali e di indole che all’inizio ci sembrano “esotici”: dobbiamo entrare un po’ alla volta, senza giudicare, lasciandoci portare dalla narrazione.

Questo è un aspetto difficile della letteratura di Ibrahimi (Dones è ancora più forte, più traumatica,  mossa da istanze civili e umane più dolenti): la sua prosa è coinvolgente, ma ci parla di cose e di pensieri per i quali forse avremmo bisogno di un po’ di training.

Io conosco un po’ l’Albania, parlo l’albanese, ci sono stata tante volte, nella mia famiglia acquisita, eppure alle volte mi riesce difficile leggere senza reagire, senza giudicare. Una caratteristica della letteratura balcanica, specialmente femminile, è poi la strana sensazione, mentre leggi, che qualcosa di terribile sia già accaduto e che tutto diriga verso qualcos’altro di altrettanto tremendo.

In un certo senso, è così. Albanesi e kosovari hanno vissuto tragedie molto pesanti, negli ultimi trent’anni, e oggi lentamente le rielaborano, le rivivono, le rivendicano perché non siano negate.

Questa nuova battaglia, fatta di parole e di gesti di civiltà, è combattuta prevalentemente dalle donne, che hanno pagato il prezzo più alto e peggiore. Leggerle non è sempre facile.

La sofferenza con la quale veniamo a contatto è però accompagnata da molto altro. Storie di personaggi forti, viaggi incredibili, esperimenti di lingua e di pensiero, intrecci veri e allo stesso tempo intessuti di fiaba.

Le autrici albanesi hanno i piedi nel mondo di oggi e il cuore fortemente rivolto a un senso delle proprie radici, della propria albanesità, in un modo struggente, intenso.

Tutto questo è albanese, ma è anche italiano.

Perché è in italiano che Ibrahimi scrive, e in Italia che ha scelto di stare. Sia in “Rosso come una sposa” che in “L’amore e gli stracci del tempo” riviviamo il passato dell’Albania, ma anche quello dell’Italia, che si compenetrano e sono interdipendenti.


Leggere mi pare un modo meraviglioso per scoprire quanto siamo vicini nella diversità e uguali nell’umanità e nelle storie di migrazione, nostalgia e costruzione di nuove identità.