“Il monaco” di Matthew Gregory Lewis. Recensione / Halloween 2022

Questo articolo è pubblicato nella cornice della rassegna collettiva di dieci giorni dedicata ad Halloween 2022.

Questa è la quarta giornata, a tema IL RITORNO DEL GOTICO

Recensione a cura di Romina Russo

Se “Il Castello di Otranto” di Walpole è stato il primo, flebile vagito del romanzo gotico, “Il Monaco” di Lewis ha rappresentato, senza ombra di dubbio, l’urlo barbarico e prepotente attraverso il quale il neonato genere narrativo ha spudoratamente rivendicato la propria dignità letteraria e il proprio diritto ad esistere.

Di una modernità, per certi aspetti, disarmante, per via di quell’irresistibile compresenza di elementi, come il sesso, le presenze diaboliche e il sacrilego che tuttora sembrano costituire la ricetta perfetta per un horror  di successo, “Il Monaco” è stato un’aperta dichiarazione di anticattolicesimo dell’Inghilterra settecentesca e una coraggiosa denuncia dell’ipocrisia degli ambienti clericali del tempo.

La storia del monaco Ambrosio, che vive una dimensione quasi edenica nel monastero spagnolo che lo ospita, estraneo a qualsiasi tentazione mondana e interamente proteso verso una perfezione spirituale alla quale pare essere vicinissimo, ricorda, in maniera sorprendente, quel “teorema” infallibile che pare essere alla base delle più grandi tragedie greche: quanto più è alto il punto in cui si trova l’eroe o il protagonista nel suo percorso di vita, tanto più disastrosa e terribile sarà la sua caduta.

La presenza, all’interno del romanzo, di elementi fantasiosi come specchi magici, statue parlanti o veleni, che al lettore moderno appaiono come stratagemmi puerili, ma che rendono l’opera genuinamente figlia del suo tempo, non inficiano la genialità della storia.

Perché quest’ultima è l’inarrestabile parabola discendente di un uomo, che inizia proprio quando questi pare essere a un passo dalla liberazione definitiva da tutte le pulsioni.

È la catastrofe di un’anima un istante prima di librarsi in volo, leggera, su ali sgravate del pesante fardello della carnalità.

L’arrivo al convento di Matilda, inviata da Satana sotto le mentite spoglie del novizio Rosario per spingere Ambrosio alla perdizione, e l’iniziazione ai piaceri della carne alla quale la ragazza sottopone il monaco virtuoso, è metafora ardita e sfrontata di quanto la negazione di determinate pulsioni possa avere effetti disastrosi sulla condotta umana.

È una critica non troppo velata non solo al celibato dei consacrati cattolici, ma anche alla pratica aberrante (e assai diffusa, al tempo) della monacazione forzata.

La spirale di perversioni sempre più deprecabili cui Ambrosio si abbandona dopo aver gustato le delizie dell’universo svelatogli da Matilda/Rosario diventa un percorso a ritroso. E in tale febbrile e folle retrocedere, la punizione per aver osato innalzarsi troppo al di sopra della propria umanità, diventa un inarrestabile precipitare verso la scelta di abbracciare consapevolmente la propria più cruda bestialità.

E non c’è luce, speranza o barlume di ragionevolezza in nessuno dei personaggi che popolano questo mondo che pare un dipinto di Hyeronimus Bosch.

La brutalità viene punita con altrettanta violenza, il cedere alla carne viene sanzionato con altrettanti tormenti inflitti al corpo.

Non c’è luogo o persona in cui si agiti la debole fiammella del desiderio di riabilitare le anime, di resuscitare la morale, avvalendosi di strumenti preziosi ed efficaci quali la pietà, il perdono, l’empatia.

Ciascun peccato è destinato a essere castigato con un peccato ancora più grande.

Ciascun giudice si macchia di atrocità pari, se non superiori, a quelle di coloro che è chiamato a condannare.

E l’elemento spaventoso, perturbante più di ogni altro all’interno del romanzo, finisce per essere non più il soprannaturale, il mostruoso, il paranormale, quanto piuttosto tutto ciò che è naturale, reale, normale.

Poiché la negazione di questi aspetti, la soppressione di pulsioni e desideri, di sentimenti e aneliti che muovono il mondo e lo plasmano dalla notte dei tempi, non può che tradursi in distruzione.

Perché perfezione è equilibrio, bilanciamento equo di tutto ciò che ci compone e ci rende squisitamente umani.

Imperfetti, con i piedi ben piantati in terra, mentre il petto si solleva e si abbassa per ricordarci che siamo carne intrisa di sogni.

E che basta togliere ai sogni la carne, o viceversa, per guardarci allo specchio e riconoscerci corrotti nella forma peggiore della nostra essenza.

Per vederci trasformati, senza speranza di poter tornare indietro, in autentici mostri.

Romina Russo


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