Bruce Chatwin, (quasi) trent’anni dopo

“La vita stessa è un viaggio da fare a piedi”, diceva.
Scrittore appassionato, scrupoloso antropologo, saggista brillante: parliamo, naturalmente, di Bruce Chatwin.

Lo ricordiamo a quasi trent’anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 18 gennaio 1989, con un articolo di Elena Di Fazio pubblicato su Venti Nodi, il nostro bollettino letterario, nel 2009.

Il ricordo di Bruce Chatwin e della sua bibliografia è ancora vivo nel cuore dei lettori e di chi condivide l’ammirazione per una vita dedicata al vagabonding. La sua vita e la sua produzione furono entrambe molto brevi, tuttavia il nome di Chatwin è forse uno dei più rappresentativi tra quelli dei grandi scrittori erranti.

Nato in Inghilterra e da subito appassionato d’arte, Chatwin lasciò un prestigioso incarico alla Sotheby’s di Londra a causa di gravi problemi alla vista che, a detta del suo oculista, erano in gran parte dovuti al suo lavoro: ricevuto dal medico il consiglio, come racconta in The Songlines (1987), di “allargare i propri orizzonti”, partì per un lungo viaggio in Sudan. L’esperienza gli fece perdere interesse per il mondo dell’arte e delle aste, mentre consolidò in lui le due passioni che ne avrebbero caratterizzato l’esistenza: quella per l’archeologia, che lo portò a iscriversi, a quasi trent’anni, all’Università di Edimburgo, e quella per i viaggi. In quello stesso periodo sposò la moglie Elizabeth, un matrimonio destinato a concludersi quindici anni dopo e reso forse difficile dalla dichiarata bisessualità di lui.

Ebbe occasione di spostarsi spesso grazie al suo lavoro per il Sunday Times Magazine, al quale collaborava in veste di esperto di arte; fu però nel 1972 che conobbe l’arredatrice e architetto Eileen Gray, allora novantatreenne, la quale, secondo un aneddoto che Chatwin riporta sempre in The Songlines, lo esortò a visitare la Patagonia, dove lei sarebbe sempre voluta andare.
Dal viaggio in Patagonia nacque la sua prima opera: appunto In Patagonia.
Il diario di viaggio diventa lo spunto per riflessioni introspettive e rievocazione di ricordi passati, e per l’analisi delle particolarità culturali cilene. In Patagonia divenne subito un’opera rappresentativa per gli scrittori viaggiatori, grazie allo stile coinvolgente di Chatwin e alla sua capacità di catturare l’anima dei luoghi che visitava. Gustoso l’aneddoto secondo cui Chatwin si sarebbe licenziato dal Sunday solo dopo essere giunto a destinazione, con un lapidario telegramma: “Sono andato in Patagonia”.

Nel 1980 fu pubblicato il suo secondo lavoro, Il viceré di Ouidah (The Viceroy of Ouidah), che analizza la figura di un commerciante di schiavi immaginario – basato però su un personaggio storico realmente esistito, l’afro-brasiliano Francisco Felix De Souza. In un passo del libro, Chatwin ammette di essersi “ispirato” allo stile cinematografico del regista Werner Herzog, il quale trasporrà realmente l’opera su pellicola sette anni dopo, con il titolo di Cobra Verde (id.) e con Klaus Kinski nel ruolo del protagonista.
Nella sua opera successiva, il romanzo intitolato Sulla collina nera (On the Black Hill), Chatwin si sposta verso paesaggi meno esotici e più vicini alle sue zone d’origine, ambientando sul confine tra Inghilterra e Galles la vicenda di due gemelli coinvolti nel primo conflitto mondiale. Anche questo libro fu trasformato in film dal regista Andrew Grieve, nel 1987.

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In quell’anno, oltre alle due pellicole, uscì anche uno dei più importanti scritti di Chatwin, il già citato Le vie dei canti (The Songlines), resoconto di un lungo viaggio in Australia a contatto con la cultura aborigena. Si tratta di un’opera difficilmente classificabile, in quanto racchiude la struttura del diario di viaggio, del memoriale, del romanzo, dell’indagine antropologica, il tutto compendiato da una lunga e frammentata riflessione sulla natura nomade dell’essere umano, una sorta di dichiarazione di poetica di Chatwin. Le considerazioni dell’autore verranno successivamente riprese in un’altra raccolta, la Anatomia dell’irrequietezza (Anatomy of Restlessness) pubblicata postuma nel 1997.

Nel 1988, a un anno dalla prematura scomparsa, fu la volta del romanzo Utz (id.), storia di un collezionista di porcellane nella Praga della Guerra Fredda, e di Che ci faccio qui? (What am I doing here?), antologia di memorie e immagini da molti dei suoi viaggi – su Photographs and Notebooks, anch’esso pubblicato postumo, furono poi rese pubbliche le fotografie che Chatwin scattò in giro per il mondo.

Chatwin morì di AIDS a soli quarantanove anni, dopo aver tenuto a lungo nascosta la malattia. Al termine di una vita trascorsa a viaggiare in lungo e in largo, si ritrovò inchiodato a una sedia a rotelle a Nizza, in Francia, dove ogni cura risultò inutile.
Sono trascorsi vent’anni esatti dalla sua scomparsa, ma il suo nome è ancora sinonimo di romanziere errante, e uno dei suoi vezzi da scrittore – la scorta di Moleskine che si trascinava ovunque – è ancora di gran moda fra le nuove leve. Al di là di questo, Chatwin, con la sua pur breve produzione, ha lasciato una importante riflessione, un discorso di cui ogni libro non è che un tassello: la tesi per cui gli esseri umani sono fatti per spostarsi di continuo, e che trascorrere tutta la vita in un solo luogo, senza assecondare questo ancestrale richiamo al nomadismo, è contrario alla nostra stessa natura. Una volta caduti vittime di quello che Chatwin, citando Baudelaire, definì l’horreur du domicile, viaggiare diviene un imperativo, una necessità che sembra quasi confermata dalla stessa biologia umana.