Studio83 al Salone del Libro di Torino 2018 – Ecco com’è andata!

Venerdì 11 ho visitato il Salone del Libro di Torino, dopo qualche anno di assenza.
Visitato a dire il vero è una parola grossa, perché nell’arco di una giornata ho partecipato a due conferenze in veste di relatrice e ospite, e ho avuto poco tempo per girare tra gli stand e rendermi conto dell’aria che tirava e della situazione di quest’anno.


Ho quindi rimediato facendo tante domande a colleghi e colleghe, e ricercando in rete pareri sia degli operatori, sia soprattutto opinioni di lettori e lettrici che hanno recensito le loro visite nei cinque giorni di Salone.

Negli anni passati il Salone per noi  non era stato tutto rose e fiori. L’offerta culturale è sempre stata molto varia e ampia passando dai fenomeni mediatici “di cassetta” a voci importanti e vere della cultura internazionale e glocale. Ma ci eravamo spesso scontrate con problemi logistici, di accessibilità, di accoglienza, di accoglimento che ci avevano lasciato con l’amaro in bocca (e i piedi sanguinanti).

Com’è andata quest’anno? Facciamo un breve passo indietro.

Nel 2017 è nata Tempo di Libri: come tutti sappiamo, c’è stato un dissidio interno alle logiche di potere del Salone, che ha portato l’AIE (Associazione Italiana Editori, presieduta da Motta e capitanata dai big come Mondadori e Rizzoli) ad abbandonarlo, l’anno scorso, per aprirsi la propria fiera del libro.
Tempo di Libri è un evento milanese organizzato molto bene, ma ancora abbastanza spurio dal punto di vista culturale [leggi anche: Studio83 a Tempo di Libri 2018: ecco com’è andata!]. Si trova alla ricerca di una identità e del contributo degli editori che “fanno” davvero la cultura di oggi e di domani, ovvero gli editori indipendenti. Quelli che animano tanto bene la fiera romana Più Libri Più Liberi, per capirci, e che in gran parte sono rimasti a Torino.

Questi editori  hanno creato una ulteriore scissione dall’AIE fondando ADEI, Associazione degli Editori Indipendenti, neanche una settimana fa. In parte, la spaccatura è derivata dall’imposizione di Tempo di Libri a scapito di Torino, in parte, sospetto, per le modalità di gestione dell’AIE, abbastanza dominata da pochi “autocrati” che spadroneggiano mentre gli indipendenti non si sentono rappresentati. (E per cominciare si concentrano sul bloccare gli sconti sui prezzi dei libri. Non. Ci. Siamo.)
Ma come leggerete più avanti in questo report, alcuni di loro sono stati trattati molto male anche dal Salone.

Oltre alla “politica degli editori”, poi, esiste anche la politica e basta: anche da questo punto di vista ci sono stati grandi cambiamenti, raccontatimi da amici torinesi che ho incontrato in fiera e che hanno una buona conoscenza degli indoor. Il cambio di amministrazione, dopo un dominio abbastanza uniforme durato quasi un ventennio, ha sicuramente portato un ricambio che non può che fare bene. Già a metà del 2016 ci sono state indagini e arresti legati proprio all’organizzazione del Salone e a una rete clientelare ancora non ben chiarita, che si ripercuotono ancora sul Salone. E nuovi rivolgimenti sono attesi a breve.
Il Salone di Torino vive quindi un periodo burrascoso, sia dal punto di vista editoriale che amministrativo, che porterà a profondi mutamenti sperabilmente positivi.

Questo preambolo per chiarire che il Salone di Torino non è solo una fiera del libro molto grande e piena di libri: è anche un elemento protagonista in una rete fatta di relazioni, dialettiche e spesso conflitti, che tutti insieme rappresentano grande parte del panorama dell’offerta libraria italiana. Nicola Lagioia, scrittore pluripremiato e direttore di questa edizione del SalTo, si è trovato quindi di fronte a una doppia sfida: la gestione tout court del Salone, cosa affatto semplice, e la mossa di Torino sulla scacchiera.

Ma cosa arriva al pubblico di lettori e lettrici, il vero protagonista e destinatario di ogni kermesse? Cosa ricava dal Salone la “persona media della strada” che si organizza con la famiglia per “fare un giro alla fiera del libro”, o alla scolaresca, o alla compagnia di amici e amiche che si programmano il fine settimana includendo la puntata al Lingotto?

Anzitutto i numeri: 144.386 visitatori unici al Lingotto, contro i 143.815 del 2017, cui vanno aggiunti i 26.400 al Salone Off contro i 25.000 del 2017. Per un totale di 170.786 visitatori. [Dal comuncato stampa finale]

La vittoria sbandierata è stato il numero di persone partecipanti. Un numero obiettivamente impressionante, attirato sicuramente dal ricchissimo programma: il tema ampio come “Un giorno, tutto questo” ha dato modo di buttare dentro qualsiasi cosa, e non lo vedo come un dato negativo, perché in un momento critico bisogna tirare fuori l’artiglieria.
Di “munizioni” ce n’erano davvero tante. Grandi ospiti: Premi Nobel, Premi Strega, campioni di incassi e “superstar” per ogni età e preferenze di lettura. Percorsi tematici “acchiappalike”: come quelli dedicati alle serie TV, i Grandi del Novecento e lo spazio dedicato alla vicina Francia. Un tentativo di discorso di “digitale”: che però a leggere diversi pareri si è come al solito arenato nella sostanziale impreparazione a riguardo della grande editoria italiana.

Lo sforzo non è stato fatto solo dal Salone, ma anche da tanti singoli editori che hanno organizzato nei loro stessi stand giochi, eventi e conferenze, che magari sono rimasti fuori dal programma ufficiale, ma che hanno avuto ottimi numeri. È il caso di Future Fiction, piccola casa editrice di fantascienza che in cinque giorni di fiera ha accolto una serie quasi ininterrotta di conferenze e panel tematici (tra i quali i miei!) che hanno avuto sempre un buon pubblico.

Allo stesso tempo, però, la logica dell’organizzazione principale, “mi sparo tutto quello che riesco”, ha portato a un riduzionismo della complessità possibile, e a cose fatte davvero male: ne hanno fatto le spese “le diverse e più interessanti voci dell’editoria indipendente”, come definiti dalla stessa organizzazione. Ovvero, trenta editori indipendenti relegati nel “Padiglione 4”, ribattezzato il “Salone degli ultimi” o anche il “Padiglione del Disagio”: una tensostruttura caldissima, invisibile e introvabile, dove i malcapitati, etichette interessanti, attive e paganti come tutti gli altri, non hanno beneficiato del bagno di folla e anzi sono andate in perdita: di soldi, di visite, ma anche di voglia e di morale.
Troppi editori e poco spazio? “Ritardatari”, come qualcuno dall’organizzazione li ha simpaticamente definiti?
Molto più semplice.

È tornato Mondadori e si è preso i suoi metri quadri.

Da La rabbia dei 30 editori finiti sotto la tenda: “Chiediamo i danni” , su La Stampa

I grandi editori “scissionisti” hanno reclamato uno spazio al Salone, e questo spazio è stato dato loro “sfrattando” dai padiglioni “veri” altri editori dalla potenza di fuoco minore, e creando per questi ultimi un accrocchio; che è stato anche difeso al motto di “vi tenete quello che vi diamo perché non ci sono editori di Serie A e di Serie B”.
Quanto meno paradossale, e anche, a mio modo di vedere, controproducente: perché se ti sforzi di dare un’offerta culturale vera non puoi prescindere dai piccoli editori e dalla bibliodiversità. Allo stato attuale, un solo piccolo stand dell’editore artigiano vale quanto e più di due mega baracconi big, che al loro interno sono organizzati come il solito supermercato, con commessi che vendono libri come se vendessero tranci di pizza e usano bene il registratore di cassa e male il catalogo e la ricerca bibiografica. (E rifiutano di accettare le tessere prepagate, come nel caso di Feltrinelli. Cash, baby!)

Arriviamo quindi al punto dolente di questa grande organizzazione. Il solito, antipatico e inspiegabile punto dolente.

La prima cosa che del SalTo salta agli occhi è la fila. La solita fila. Serpentoni interminabili già il venerdì mattina riempiono la piazza che non ha un angolo di ombra né riparo da eventuali rovesci.

Ancora così stiamo?

Che i controlli siano necessari, ahimé, abbiamo imparato a capirlo e lo accettiamo pure. Ma che per farlo ci siano quattro addetti anziché quaranta è davvero incomprensibile.

E poco accessibile: dove sono le strutture per disabili? I servizi igienici? Dove sono le panchine? Dentro e fuori dal Salone, trovare un posto dove sedersi è ancora una sfida improba. Camminando tra gli stand, tra i libri meravigliosi e gli editori volenterosi, una domanda mi frullava per la testa: se fossi incinta? Se dovessi allattare? Se fossi una persona anziana, o disabile, se mi facessi male a un piede? Dove mi metto?

(Aspetta un attimo: lo sono stata, incinta, al Salone. È stato nel 2009.

Venerdì 11 ho visitato il Salone del Libro di Torino, dopo qualche anno di assenza.
Visitato a dire il vero è una parola grossa, perché nell’arco di una giornata ho partecipato a due conferenze in veste di relatrice e ospite, e ho avuto poco tempo per girare tra gli stand e rendermi conto dell’aria che tirava e della situazione di quest’anno.


Ho quindi rimediato facendo tante domande a colleghi e colleghe, e ricercando in rete pareri sia degli operatori, sia soprattutto opinioni di lettori e lettrici che hanno recensito le loro visite nei cinque giorni di Salone.

Negli anni passati il Salone per noi  non era stato tutto rose e fiori. L’offerta culturale è sempre stata molto varia e ampia passando dai fenomeni mediatici “di cassetta” a voci importanti e vere della cultura internazionale e glocale. Ma ci eravamo spesso scontrate con problemi logistici, di accessibilità, di accoglienza, di accoglimento che ci avevano lasciato con l’amaro in bocca (e i piedi sanguinanti).

Com’è andata quest’anno? Facciamo un breve passo indietro.

Nel 2017 è nata Tempo di Libri: come tutti sappiamo, c’è stato un dissidio interno alle logiche di potere del Salone, che ha portato l’AIE (Associazione Italiana Editori, presieduta da Motta e capitanata dai big come Mondadori e Rizzoli) ad abbandonarlo, l’anno scorso, per aprirsi la propria fiera del libro.
Tempo di Libri è un evento milanese organizzato molto bene, ma ancora abbastanza spurio dal punto di vista culturale [leggi anche: Studio83 a Tempo di Libri 2018: ecco com’è andata!]. Si trova alla ricerca di una identità e del contributo degli editori che “fanno” davvero la cultura di oggi e di domani, ovvero gli editori indipendenti. Quelli che animano tanto bene la fiera romana Più Libri Più Liberi, per capirci, e che in gran parte sono rimasti a Torino.

Questi editori  hanno creato una ulteriore scissione dall’AIE fondando ADEI, Associazione degli Editori Indipendenti, neanche una settimana fa. In parte, la spaccatura è derivata dall’imposizione di Tempo di Libri a scapito di Torino, in parte, sospetto, per le modalità di gestione dell’AIE, abbastanza dominata da pochi “autocrati” che spadroneggiano mentre gli indipendenti non si sentono rappresentati. (E per cominciare si concentrano sul bloccare gli sconti sui prezzi dei libri. Non. Ci. Siamo.)
Ma come leggerete più avanti in questo report, alcuni di loro sono stati trattati molto male anche dal Salone.

Oltre alla “politica degli editori”, poi, esiste anche la politica e basta: anche da questo punto di vista ci sono stati grandi cambiamenti, raccontatimi da amici torinesi che ho incontrato in fiera e che hanno una buona conoscenza degli indoor. Il cambio di amministrazione, dopo un dominio abbastanza uniforme durato quasi un ventennio, ha sicuramente portato un ricambio che non può che fare bene. Già a metà del 2016 ci sono state indagini e arresti legati proprio all’organizzazione del Salone e a una rete clientelare ancora non ben chiarita, che si ripercuotono ancora sul Salone. E nuovi rivolgimenti sono attesi a breve.
Il Salone di Torino vive quindi un periodo burrascoso, sia dal punto di vista editoriale che amministrativo, che porterà a profondi mutamenti sperabilmente positivi.

Questo preambolo per chiarire che il Salone di Torino non è solo una fiera del libro molto grande e piena di libri: è anche un elemento protagonista in una rete fatta di relazioni, dialettiche e spesso conflitti, che tutti insieme rappresentano grande parte del panorama dell’offerta libraria italiana. Nicola Lagioia, scrittore pluripremiato e direttore di questa edizione del SalTo, si è trovato quindi di fronte a una doppia sfida: la gestione tout court del Salone, cosa affatto semplice, e la mossa di Torino sulla scacchiera.

Ma cosa arriva al pubblico di lettori e lettrici, il vero protagonista e destinatario di ogni kermesse? Cosa ricava dal Salone la “persona media della strada” che si organizza con la famiglia per “fare un giro alla fiera del libro”, o alla scolaresca, o alla compagnia di amici e amiche che si programmano il fine settimana includendo la puntata al Lingotto?

Anzitutto i numeri: 144.386 visitatori unici al Lingotto, contro i 143.815 del 2017, cui vanno aggiunti i 26.400 al Salone Off contro i 25.000 del 2017. Per un totale di 170.786 visitatori. [Dal comuncato stampa finale]

La vittoria sbandierata è stato il numero di persone partecipanti. Un numero obiettivamente impressionante, attirato sicuramente dal ricchissimo programma: il tema ampio come “Un giorno, tutto questo” ha dato modo di buttare dentro qualsiasi cosa, e non lo vedo come un dato negativo, perché in un momento critico bisogna tirare fuori l’artiglieria.
Di “munizioni” ce n’erano davvero tante. Grandi ospiti: Premi Nobel, Premi Strega, campioni di incassi e “superstar” per ogni età e preferenze di lettura. Percorsi tematici “acchiappalike”: come quelli dedicati alle serie TV, i Grandi del Novecento e lo spazio dedicato alla vicina Francia. Un tentativo di discorso di “digitale”: che però a leggere diversi pareri si è come al solito arenato nella sostanziale impreparazione a riguardo della grande editoria italiana.

Lo sforzo non è stato fatto solo dal Salone, ma anche da tanti singoli editori che hanno organizzato nei loro stessi stand giochi, eventi e conferenze, che magari sono rimasti fuori dal programma ufficiale, ma che hanno avuto ottimi numeri. È il caso di Future Fiction, piccola casa editrice di fantascienza che in cinque giorni di fiera ha accolto una serie quasi ininterrotta di conferenze e panel tematici (tra i quali i miei!) che hanno avuto sempre un buon pubblico.

Allo stesso tempo, però, la logica dell’organizzazione principale, “mi sparo tutto quello che riesco”, ha portato a un riduzionismo della complessità possibile, e a cose fatte davvero male: ne hanno fatto le spese “le diverse e più interessanti voci dell’editoria indipendente”, come definiti dalla stessa organizzazione. Ovvero, trenta editori indipendenti relegati nel “Padiglione 4”, ribattezzato il “Salone degli ultimi” o anche il “Padiglione del Disagio”: una tensostruttura caldissima, invisibile e introvabile, dove i malcapitati, etichette interessanti, attive e paganti come tutti gli altri, non hanno beneficiato del bagno di folla e anzi sono andate in perdita: di soldi, di visite, ma anche di voglia e di morale.
Troppi editori e poco spazio? “Ritardatari”, come qualcuno dall’organizzazione li ha simpaticamente definiti?
Molto più semplice.

È tornato Mondadori e si è preso i suoi metri quadri.

Da La rabbia dei 30 editori finiti sotto la tenda: “Chiediamo i danni” , su La Stampa

I grandi editori “scissionisti” hanno reclamato uno spazio al Salone, e questo spazio è stato dato loro “sfrattando” dai padiglioni “veri” altri editori dalla potenza di fuoco minore, e creando per questi ultimi un accrocchio; che è stato anche difeso al motto di “vi tenete quello che vi diamo perché non ci sono editori di Serie A e di Serie B”.
Quanto meno paradossale, e anche, a mio modo di vedere, controproducente: perché se ti sforzi di dare un’offerta culturale vera non puoi prescindere dai piccoli editori e dalla bibliodiversità. Allo stato attuale, un solo piccolo stand dell’editore artigiano vale quanto e più di due mega baracconi big, che al loro interno sono organizzati come il solito supermercato, con commessi che vendono libri come se vendessero tranci di pizza e usano bene il registratore di cassa e male il catalogo e la ricerca bibiografica. (E rifiutano di accettare le tessere prepagate, come nel caso di Feltrinelli. Cash, baby!)

Arriviamo quindi al punto dolente di questa grande organizzazione. Il solito, antipatico e inspiegabile punto dolente.

La prima cosa che del SalTo salta agli occhi è la fila. La solita fila. Serpentoni interminabili già il venerdì mattina riempiono la piazza che non ha un angolo di ombra né riparo da eventuali rovesci.

Ancora così stiamo?

Che i controlli siano necessari, ahimé, abbiamo imparato a capirlo e lo accettiamo pure. Ma che per farlo ci siano quattro addetti anziché quaranta è davvero incomprensibile.

E poco accessibile: dove sono le strutture per disabili? I servizi igienici? Dove sono le panchine? Dentro e fuori dal Salone, trovare un posto dove sedersi è ancora una sfida improba. Camminando tra gli stand, tra i libri meravigliosi e gli editori volenterosi, una domanda mi frullava per la testa: se fossi incinta? Se dovessi allattare? Se fossi una persona anziana, o disabile, se mi facessi male a un piede? Dove mi metto?

(Aspetta un attimo: lo sono stata, incinta, al Salone. È stato nel 2009. È stato tremendo.)

Non è tutto. I cancelli a un certo punto vengono chiusi, perché la gente è troppa, e il blocco coinvolge anche gli espositori, molti dei quali venerdì aprono in ritardo, saltano conferenze e lavorano con l’acqua alla gola.
Il servizio di ristorazione è affidato all’Autogrill che in angoli tristi e disadorni impone i suoi prezzi allineati a quelli delle autostrade ad agosto.
Nelle sale l’acustica è pessima, e per raggiungere l’area dedicata ai diritti d’autore e agli scambi professionali (anche internazionali: bella figura) tocca farsi il miglio verde nel parcheggio desolato.

Il comunicato stampa finale del Salone ha toni trionfali: sicuramente centocinquantamila persone sono una bella medaglia, e le vendite a leggere bene sono più o meno stabili rispetto agli anni scorsi, quindi non in calo, quindi è una bella notizia.

Ma non ho trovato risposta alla più semplice delle domande: sulla base di quale logica convochi premi Nobel e superstar per richiamare migliaia di persone, e poi non pensi alle esigenze di quelle migliaia di persone?

Stante la contentezza per una giornata di incontri e confronti, resa possibile proprio dall’esistenza del Salone e dal suo grande richiamo per tutti noi amanti della lettura e della conversazione culturale, mi tocca ripetere le stesse cose già dette gli anni scorsi: non si fanno le cose così.

Al netto della sfida organizzativa, del momento di passaggio, dei problemi di sicurezza, delle logistiche e dialettiche sicuramente difficili per chi organizza… i cessi ce li devi mettere.
L’accessibilità è la prima cosa alla quale devi pensare. Non far svenire la gente dovrebbe essere tra le prime voci della tua checklist.

In 31 anni di Salone, è così difficile tirare su un tendone per mettere all’ombra chi fa la fila fuori? È così impossibile pensare a qualche panchina in giro? Assumere un po’ più di personale per alleviare il tormento degli addetti all’accoglienza e alle informazioni, crivellati di domande e tirati pazzi da fiumi di folla che ha bisogno di aiuto?

Termino il “momento lamentazioni” con una tirata d’orecchie anche agli editori. Che in larga maggioranza, a quanto leggo in giro, non hanno previsto o hanno persino rifiutato di applicare sconti sui prezzi di copertina.
Quanto può spendere e quanto può sopportare un lettore o una lettrice, anche bendispost*, nel momento in cui paga un biglietto, fa una fila di ore, vive momenti di disagio fisico e si sente negare anche una legittima riduzione?

Esagero? Sono poco corretta, lagnosa, concentrata sul negativo?

A scanso di equivoci, ripeto il mio pensiero: il Salone di Torino è stata un’occasione preziosa che mi ha permesso di stringere nuovi contatti e di rivedere vecchi amici, quindi sono felice di esserci stata e che esso ci sia stato.

Allo stesso tempo, non si possono ignorare le scene di grande disagio vissuto dalle persone, e i tantissimi commenti online negativi, quando non inca**ati, di lettori e lettrici, fieriste e fieristi, persone comuni interessate alla cultura, che per arrivarci hanno dovuto soffrire fisicamente. I più tristi da leggere, per me, sono stati quelli di chi era al suo primo Salone e afferma di non volerci tornare più.

E se l’organizzazione ringrazia esplicitamente “tutti coloro che hanno lavorato anche in ondizioni d’emergenza”, l’auspicio sincero e positivo per le prossime edizioni del Salone è che l’emergenza non ci sia più, che non ci si permetta di arrivarci, e che si possa far lavorare e passeggiare le persone in condizioni di accogliente, piacevole, comoda e inclusiva normalità.

Un giorno, tutto questo… ci insegnerà qualcosa?
Lo facciamo, questo SalTo di qualità?

Da Torino è tutto, a voi studio! #teamdodo