Tòpoi letterari, luoghi comuni, cliché, stereotipi. Cosa sono? – III Parte: lo stereotipo

Eccoci alla terza e ultima puntata della nostra piccola serie su alcuni elementi narrativi ricorrenti.

Nella prima puntata abbiamo parlato del luoghi comuni letterari, o tòpoi: un patrimonio che devi conoscere.

Nella seconda puntata abbiamo affrontato il tema dei cliché: ovvero dei tòpoi “degradati” che peggiorano il tuo scritto rendendolo meno efficace.

Oggi ci concentriamo su un altro elemento che devi evitare se vuoi scrivere bene e se vuoi avere lettori e lettrici che ti stimino e non ti detestino: gli stereotipi!

Originariamente, la parola stereotipo indicava una matrice di stampa ed era più o meno sinonimo di cliché.
La parola è stata poi usata per indicare delle schematizzazioni concettuali che banalizzano dei concetti o delle persone, e spesso si rivelano svilenti quando non offensivi, nei confronti degli oggetti di tale semplificazione.

Spesso, in virtù della semplificazione e quindi della relativa facilità di elaborazione, gli stereotipi si ripetono e diventano endemici, andando a sostituire l’idea di complessità, necessaria a qualsiasi elaborazione, con un’immagine piatta e monodimensionale davvero penalizzante.

Spesso inoltre lo stereotipo è inconsapevole, ed è quindi ancora più infido: perché nella scrittura noi non ci accorgiamo di averlo, mentre chi legge molto spesso sì.
A questo punto i casi sono due. Se va bene, il nostro romanzo o racconto riceverà la critica di essere scontato, impersonale e strasentito. Se va meno bene, chi legge si sentirà colpito da uno stereotipo e ne verrà conseguentemente offeso.

(Immagine da Movimento RETE)

C’è bisogno di dire che tipo di pubblicità può fare un lettore o una lettrice colpita sul piano personale?

Bisogna anche dire che per sua stessa natura lo stereotipo si lega al pregiudizio. E sulla pagina diventa niente meno che un cliché degenerato che va a colpire non un singolo fatto o caratteristica o situazione, bensì gruppi di persone e identità più generali e diffuse.

L’esempio classico dello stereotipo è quello che nelle sue tante declinazioni colpisce la figura femminile.
Sono frequenti i personaggi femminili dipinti in modo piatto, ripetitivo e poco equo, laddove i loro colleghi personaggi maschili sono ben delineati, e quando alla descrizione piatta si aggiunge l’offesa… sicuro di volerti alienare metà del tuo potenziale pubblico?

Lo stereotipo della femme fatale riguarda il personaggio femminile attraente e malizioso, che usa la seduzione sessuale per ottenere i suoi turpi fini. Quello della damsel in distress è se possibile anche più disastroso, perché rappresenta la “principessa” in pericolo che è completamente incapace di iniziativa individuale e si appoggia in tutto e per tutto all’eroe, avendo come unica utilità narrativa quella di farsi tirare fuori dai guai tra un sospiro e un gridolino di aiuto. La virago rappresenta un’idea retriva che mira a colpire proprio l’individualità femminile: è il personaggio femminile forte e importante, che però in virtù di questo non è attraente o sessualmente appetibile dai personaggi maschili, perché ha una fisicità e dei modi “maschili” e “poco femminili” nel senso figurato del termine.

[Immagine via Alqamah.it]

Molti stereotipi colpiscono le minoranze, e oltre a silurare la credibilità di uno scrittore contribuiscono a una generale narrazione lesiva dei diritti umani: il rabbino ebreo col naso adunco e l’aspetto untuoso è l’esempio più ovvio del caso, talmente ovvio che è quasi un cliché dello stereotipo.

Ecco alcuni esempi un po’ meno usati, che forse ti suoneranno familiari e sicuramente sono molto, troppo diffusi nelle pagine che leggiamo.

Il “buon selvaggio”, ad esempio: il nativo saggio che conosce le piante e fa da mentore al personaggio, istruendolo sulla propria religione a base di spiriti guida e arcana voce della natura. Non ha un carattere, non ha quindi difetti o particolarità, è un avatar inoffensivo pensato per ricoprire la figura del mentore o del deus ex machina senza oscurare il protagonista (e senza stancare chi scrive!). Si tratta della versione moderna e politicamente corretta del “cannibale con l’anello al naso”: cambia il tipo di trattamento, leggermente meno aggressivo, non cambia l’attitudine banalizzante e il piglio neocolonialista.

Altri stereotipi sono l’”islamico terrorista”, l’”indiano yogini sputasentenze”, il “cinese infido e magiariso”, il “francese puzzolente e altezzoso”, e così via.

Esistono anche stereotipi apparentemente positivi: la madre pronta a tutto che si immola per i suoi figli con uno spirito di sacrificio che trasuda a ogni battuta, il bambino sincero che è lo specchio della verità e dell’innocenza, il nero col ritmo nel sangue, la prostituta dal cuore d’oro, e così via.

Li definiamo “apparentemente” positivi perché quando siamo in presenza di uno stereotipo poco importa il contenuto: è l’approccio che è deleterio!

Certo:per chi legge è molto meglio imbattersi in uno stereotipo proinfanzia che in uno antisemita.

Tuttavia, la semplificazione e la sua ripetizione acritica è un modo di ragionare e di scrivere che non va mai bene, perché impoverisce il narrato e priva chi legge di quella complessità che seppur minima è necessaria alla costruzione di personaggi credibili, umani, verosimili e rispettosi della realtà.

Immagine via “L’uomo che non dvee chiedere mai”, pagina Facebook.

Un modo per identificare uno stereotipo è quello di capovolgerlo, di applicarlo a un’altra categoria di persone (magari quella “opposta”), oppure di estenderlo: suona così bene, se detto riguardo te?

Concludiamo ricordando che l’uso di stereotipi è diretto figlio del conformismo e della pigrizia intellettuale, che ci portano spesso a prendere per buoni dei modelli che non corrispondono a una realtà e non sono utili: magari perché capziosi; magari perché, semplicemente, stupidi.

Citiamo un passo da un manuale di scrittura:

A quest’ultima domanda ne leghiamo un’altra ancora più utile ai nostri fini: quali caratteristiche del personaggio, anche tra le più lontane dalla nostra percezione di normalità, possono essere tematizzate? E in che modo caratterizzare la nostra percezione di normalità?

Una persona trangender è normale o aliena per noi? Una donna che ripara un macchinario industriale? Una donna non avvenente che ripara un macchinario industriale? È normale o eccezionale per i nostri standard di partenza? E un personaggio che possieda una “diversità”, una disabilità fisica magari, è caratterizzabile sulla base preponderante di quella disabilità? Se sì, per quale motivo, in quale contesto, con quale effettiva funzione?

“Curiosamente, Gregor coleottero non s’accorge mai di avere delle ali sotto il solido rivestimento del suo dorso.”
[Vladimir Nabokov su Le Metamorfosi di Franz Kafka, in Lezioni di letteratura (1980)]

Domande. Domande difficili da dirimere, almeno quando non calate in ogni singolo caso, in ogni specifico personaggio di ciascuna storia. Domande da porsi, in ogni caso, per rispettare l’ombra che nei personaggi è importante tanto quanto la luce, ed è a sua volta rappresentabile, se non altro mediante sottrazione. Domande che saranno di giovamento alla qualità della tua storia, della scrittura, della caratterizzazione: perché, lo ripetiamo, anche nel caso dei temi più caldi non si tratta “solo” di affrontare questioni etiche, rispondendo in modo libero e personale a una vocazione insita nella fantascienza. Si tratta di scrivere bene, di creare personaggi vivi e credibili, e di dare a chi legge storie belle, ben fatte, che lasceranno il segno nel tempo, e susciteranno credito, fiducia ed emozioni vere.

Ultima domanda: di che manuale si tratta?

Del manuale di scritturaPassaporto per l’eternità”, un saggio scritto da Giulia Abbate insieme a Franco Ricciardiello, pubblicato per i tipi Odoya.

Il manuale è incentrato sulla scrittura di fantascienza, come recita il titolo, ma è pensato per chiunque ami scrivere, perché oltre al discorso legato al genere ne contiene molti altri, tra i quali un metodo di scrittura descritto nei dettagli.

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