“Bothon” di Henry S. Whitehead e H. P. Lovecraft. Recensione / Halloween 2022

Questo articolo è pubblicato nella cornice della rassegna collettiva di dieci giorni dedicata ad Halloween 2022.

Questa è la decima giornata, il rush finale: OMAGGIO A H.P. LOVECRAFT!

Recensione a cura di Giulia Abbate

Un racconto bizzarro, questo “Bothon”, e come potrebbe essere altrimenti?

Nasce infatti dalla collaborazione tra due autori oggi riscoperti, ma assolutamente “fuori mappa” come il Solitario di Providence, ovvero il sulfureo H.P. Lovecraft, e il “Reverendo” Whitehead che ha portoato nell’horror anglosassone suggestioni caraibiche e sanguinolente credenze voodoo.

La storia è semplice e di impostazione fortemente ottocentesca: a uno “strappo” dalla realtà consueta e conosciuta, si risponde consultando gli specialisti di vari rami delle scienze, che con atteggiamento positivistico fanno tutti gli esami del caso, per finire poi ad ammettere che esami, positivismo e scienza sono del tutto disarmati e smarriti di fronte a ciò che si verifica.

Il giovane Metedith ha una brutta caduta in bagno: sbatte la testa e dopo questo momento inizia a percepire strani suoni, che sono in un certo senso “immanenti” nelle percezioni del giovane ma che pian piano si delineano come qualcosa di totalmente alieno. Esame dopo consulto, il livido di Meredith inizia a riassorbirsi, ma l’uomo va sempre più in profondità del mistero, fino ad avere delle visioni nelle quali egli è il generale Bothon, che in un mondo passato e sconosciuto conduce le sue truppe e difende il suo amore mentre tutto intorno a lui crolla.

Sarà l’esperienza, e non la scienza positivista, a suggerire una possibile risposta a ciò che Meredith sta vivendo: un antico paziente dello psichiatra che si occupa del suo caso ha infatti avuto visioni simili, e inteso parole in una lingua uguale a quella che Meredith sente alzarsi, in urla e invocazioni, quando intorno a lui il mondo moderno fa silenzio.

Le sillabe trascritte da Meredith non trovavano alcuna corrispondenza in nessuna lingua conosciuta, fosse essa antica o moderna. Non erano neppure giapponese. Una volta usciti i professori, Meredith e lo psichiatra si rimisero nuovamente a esaminare gli appunti. Meredith aveva scritto: “I, I, I, I;-R’ly-eh!-Ieh nya, -Ieh nya; -zoh, zoh-an-nuh!” Soltanto un gruppo di termini sembrava formare parte di un discorso continuo o una frase, fra quelli che Meredith era stato in grado di trascrivere: “Ióth, Ióth,—natcal-o, do yan kho thútthut.”

In coda al volume Delos Digital, che propone il racconto in ottima traduzione di Claudio Foti, abbiamo anche una interessante nota di Lovecraft, che ripercorre la genesi del lavoro, nato per una rivista e cambiato poi nel finale e nel suo senso più profondo.

“Bothon” fu pubblicato postumo a entrambi gli autori, e mi viene il sospetto che possa aver influenzato la narrativa successiva più di quanto si creda. Leggendo delle allucinazioni uditive di Meredith, infatti, non ho potuto non pensare a quelle presenti nel raccapricciante e “maledetto” romanzo di Giovanni De Maria “Le venti giornate di Torino”, dove la percezione di una realtà parallela che si sovrappone con violenza a quella che percepiamo con i soli cinque sensi viene portata a vette di turbamento, oscurità e follia difficilmente eguagliabili.

Questo “Bothon” potrebbe aver ispirato le visioni terrifiche di De Maria. Oppure, e non lo esluderei con leggerezza, questi autori tormentati e coraggiosi hanno attinto alla stessa oscurità per raccontarci poi quello che si prova, e ciò che si riporta indietro dall’abisso.


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