Voce, metodo, citazioni: Irene Drago ci racconta il suo “Cielo di carta” – Dicono di noi

“Cielo di carta” è il penultimo racconto lungo che abbiamo pubblicato nella collana Futuro Presente (Delos Digital). Un racconto suggestivo e particolare, che ci ha colpite subito quando l’autrice, Irene Drago (che con noi aveva già pubblicato “Liberi tutti“) ce lo ha proposto.

Abbiamo quindi chiesto a Irene di parlarci della sua opera, di come è nata e “cresciuta”.

Scegliere un retroterra lovecraftiano è stato naturale nel momento in cui ho deciso che “Cielo di carta” avrebbe raccontato la storia di Vittorio, un uomo infelice nonostante la posizione privilegiata (una carriera avviata, un’ottima reputazione, una bella casa) in una società fortemente competitiva e classista. Lovecraft è uno dei miei autori preferiti e lo ritengo un maestro di stile ed eleganza nel raccontare l’orrore indefinibile, l’angoscia degli incubi che percola tra le crepe del reale: così, in “Cielo di carta”, una cupa minaccia lambisce i confini della normalità e, mentre annega in un terrore ancestrale al quale non riesce a dare un nome, il protagonista vede a poco a poco il vero volto del suo “mondo perfetto”.

“Cielo di carta” è un racconto che tutti i lettori e lettrici possono apprezzare; e che piacerà in particolar modo a chi ama Lovecraft e riuscirà a scovare le molte citazioni sparse. Uno dei motivi per cui lo abbiamo scelto è proprio il bellissimo omaggio che rappresenta sia verso Lovecraft, sia verso un autore di culto come fu Harlan Ellison.

Nei miei racconti rappresento spesso un’umanità malinconica, sola, “cattiva”: in “Liberi tutti”, il mio esordio su “Futuro Presente”, raccontavo la storia di Vlad, vittima di un sistema carcerario disumano e punitivo, ma anche assassino efferato benché senza memoria. Il tono generale del racconto, ironico o sarcastico, in prima persona, serviva (anche per) rendere accattivante al lettore un personaggio negativo, che mi sono divertita molto a scrivere.

“Liberi tutti”, lo ricordiamo, uscì proprio due anni fa, nel giugno 2018.

In “Cielo di carta”, invece, ho evitato i toni leggeri: lo spaesamento di Vittorio, la sua infelicità sono un sintomo della scotomizzazione del rapporto con l’Altro. La fine della relazione con la collega Giulia è la prova di come Vittorio abbia preferito il suicidio (metaforico) in nome della produttività, del successo: l’emicrania di cui soffre è l’agonia della sua natura umana, autentica, frammentata e sofferente dopo anni di negazione di sé. I gesti di Vittorio, le sue parole, sono vuoti e stereotipati: vittime della società distopica di “Cielo di carta”, al pari degli esseri umani, sono gli animali, ma anche, in senso lato, l’arte, la pubblicità, la medicina, incancrenite dall’estinguersi progressivo e inarrestabile dell’empatia, dell’amore, dell’autenticità dei sentimenti. Sarebbe facile identificare nel Presidente il responsabile di tutto, ma, in realtà, nessuno dei personaggi può dirsi innocente: tutti, in un modo o nell’altro, sono marchiati, colpevoli delle proprie azioni, e soprattutto non-azioni, nei confronti dell’Altro. La cecità verso il prossimo, in un senso quasi evangelico, è estesa a tutta la comunità: ciò che accade nello slum ne è la drammatica conseguenza.

La distopia è un filone fantascientifico che sta conoscendo un grande successo anche presso il pubblico mainstream: basta pensare a saghe young-adult come “Hunger Games”, o a classici tornati alla ribalta, come “Il racconto dell’ancella” di Atwood.

Immagino che “Cielo di carta” possa essere considerato una critica alla società attuale. Non ho scritto per parlare della contemporaneità o del futuro come se questo racconto fosse un personale “manifesto”, ma penso anche che sia impossibile separare del tutto il “sé scrittore” dalla propria visione del mondo, per quanto ci si possa camuffare, anche solo per scommessa, gioco, evasione. Non voglio prendermi troppo sul serio, quando scrivo: la personalità, le esperienze, gli ideali, la voce sono tra le parole di un testo, lascio che il lettore li colga, se vuole, li interpreti a sua volta e ne tragga le conclusioni che preferisce.

Irene ha centrato un nodo importantissimo: la voce. Non bastano la tecnica, l’esercizio, lo studio per fare davvero la differenza; bisogna acquisire una voce che sia unica e sempre riconoscibile, che definisca la personalità di un autore/autrice e delle sue opere. È la cosa più difficile, perché la voce non si impara e non si studia sui manuali.

…ma i manuali ci insegnano a trovare un metodo, senza il quale non si lavora.

Irene ci ha parlato anche di come si è avvicinata a Futuro Presente e di come ha vissuto il rapporto con noi curatrici e con l’editing: un lavoro che svolgiamo sempre in sinergia con autrici/autori prima di procedere alla pubblicazione.

L’approdo a “Futuro Presente” di “Cielo di carta”, come di “Liberi tutti”, è stato molto sereno: ho proposto i racconti alle curatrici e in entrambi i casi ho ricevuto risposta in pochissimo tempo. Credo sia importante sottolineare che la necessità di un editing professionale è indipendente dall’aver avuto un parere positivo su un racconto: come mi ha scritto una volta Giulia, con la quale ho lavorato anche su “L’ospite d’onore” (“NeXT-Stream. Visioni di realtà contigue”, Kipple, 2018), il ruolo dell’editor è portare un’opera al “livello successivo”. Collaborare con un editor permette di individuare i punti di forza e di debolezza di un testo, capire quale sia il miglior modo per scrivere quello che abbiamo in mente.

Giulia ed Elena lavorano con grande precisione e puntualità, nel pieno rispetto della voce dell’autore, e sono sempre correttissime, professionali e gentili. Lavorare con loro è stato un piacere e da tempo le considero le mie editor di riferimento.

Altra questione importante è il metodo. Ripetiamo da anni quanto sia imprescindibile investire tempo ed energie nella pianificazione di un testo, sia esso un racconto o un romanzo. L’ispirazione – che ci aiuta a far emergere un’idea e ad ampliarla – può essere sollecitata in tanti modi diversi, tra cui il ricorso alla musica.

Ci racconta Irene:

Non inizio mai a scrivere se non ho ben chiara una trama: anche se, nel corso del lavoro, alcune cose possono cambiare sulla base di un’ispirazione improvvisa, o sulla documentazione che a mano a mano raccolgo, quando mi metto al computer devo sapere “da dove parto” e “dove voglio arrivare”. L’idea per un racconto si sviluppa quasi sempre da una scena (che poi troverà il suo posto nell’incipit, o nello sviluppo della storia, o alla fine): di solito, creo la mia personale “colonna sonora”, a volte per sottolineare l’atmosfera, oppure in contrasto a quanto succede in quel momento. Mi hanno aiutata nella stesura di “Cielo di carta”:

– “I treni di Tozeur” nella versione di Franco Battiato e Alice;

– “Ich tu dir weh” dei Rammstein;

– “Darkness” di Eminem;

– “Wo sind die Clowns?” dei Saltatio Mortis;

– “In Maidjan” degli Heilung.

Grazie ancora a Irene Drago, e buone letture/scritture a tutt*!